Ribat

Ribat, che in palestinese significa “resistenza”, è un asilo che si trova proprio nel campo profughi di Deieshesh. Al suo interno vi lavorano tre maestre oltre alla direttrice, ed è gestito sotto forma di associazione; in questo modo è ancora la comunità interna che se ne occupa e se ne prende carico, attraverso un’ assemblea che si ritrova e decide il da farsi per questo posto.

I bambini sono una quarantina, divisi in due classi a seconda dell ‘ età: quella dei più piccoli di 3/4 anni. e quella dei più grandi sui 5 anni. Prima del compimento dei 3 anni i bambini rimangono a casa con la mamma, dopo i 5 invece iniziano le elementari.

Le attività sono scandite in base ad un tema settimanale, ripreso ogni giorno con strumenti diversi: il disegno, la pittura, il modellaggio e anche la costruzione di oggetti tramite materiali di recupero e riciclo. Una sostanziale differenza rispetto ai nostri asili è che qui, già alla scuola di infanzia, si inizia una prima alfabetizzazione. Ai bambini vengono insegnate le lettere dell ‘ alfabeto, però tramite giochi, canzoni e filastrocche, associandole ad oggetti per loro semplici, o anche ai colori.

 

Visto il contesto politico-sociale, viene insegnata fin dalla tenera età, la storia della Palestina, le date importanti, e anche ricorrenze legate alla religione, tramite il mezzo delle favole o delle leggende, uno strumento comprensibile per i bambini così piccoli e che attrae, in ogni luogo, la loro attenzione.

Oggi ad esempio ho assistito al racconto della storia di Maometto e l’elefante, perché il 20 novembre per il mondo islamico, si celebra la festa per la ricorrenza del compleanno del profeta. Dopo il racconto i bimbi sono stati invitati a fare un disegno, ognuno interpretando liberamente secondo la propria fantasia, la storia appena ascoltata.

E poi si è festeggiato tutti insieme con torte, dolci, frutta e succhi, proprio come un vero compleanno.

Tutto questo non viene raccontato per mettere a confronto due sistemi scolastici diversi, che comunque a quanto pare, nel rapportarsi al bambino così piccolo, non sono tanto lontani, ma al contrario proprio per sottolinearne le vicinanze: gioco, racconto e amore sono le parole d’ordine di questo asilo.

La vara e tangibile differenza sta nel contesto in cui sono inseriti: la Palestina vive l’ occupazione israeliana da 70 anni, facendo così mancare risorse che a volte da noi in Italia, sono davvero date per scontate: acqua corrente, elettricità, strutture adatte ai bambini.

L’acqua corrente come l’elettricità vengono fornite direttamente da Israele, che piano piano, si sta impossessando di tutte le risorse idriche naturali del territorio, e per questo ha il potere di decidere se erogarle o meno. Su tutti i tetti delle case a Deishesh non mancano le cisterne dove viene raccolta l’acqua per non ritrovarsi nella spiacevole situazione che manchi, anche per giorni a volte.

Nonostante tutto questo, l’impressione che si ha stando in questo asilo, è appunto che il primo strumenti educativi siano l’accoglienza e l’attenzione per l’altro, o come dicono qui “habibi”, termine che significa letteralmente “amore mio”, con cui si rivolgono ad ogni singolo bambino.

E’ stata tanta anche la curiosità dei bambini nei miei confronti, ma soprattutto la semplicità con cui mi hanno accolta in questo luogo sicuro, riconoscendomi e chiamandomi molto in fretta maestra. Ci tenevamo a mostrarmi i propri lavori, come i disegni, e a condividere con me i gesti e i momenti della loro quotidianità in asilo. Ed è proprio in questi momenti che sento più vicina la mia quotidianità dell’ asilo in cui lavoro e la mancanza dei “miei bimbi” si fa più lieve.