Jenin in fiore

Jenin è una città che si trova a nord della Palestina, in una grande pianura, famosa per la sua ricchezza d’ acqua. Infatti sono fantastiche le produzioni di frutta e verdura. Anche se ora l’acqua è controllata dal governo di Israele, i prodotti di Jenin rimangono i migliori e i più venduti in West Bank.

Jenin inoltre non si trova lontano dal mare, e infatti passeggiando per le sue strade è inconfondibile il profumo frizzante che arriva dal Mediterrano. Per i palestinesi però non è possibile recarvisi, perché appunto la costa è ormai territorio israeliano; i palestinesi originari di questa zona sono stati cacciati durante la Nakba nel 1948, e ora possono farvi ritorno solo momentaneamente e attraverso dei specifici permessi, concessi da Israele.

Anche Jenin, come tutte le altre città della West Bank, possiede un campo profughi, creato dopo la Nakba, dove risiedono circa 17,000 persone in un chilometro quadrato di spazio.

Questo campo possiede una storia molto particolare e molto dura: nel 2002 durante la seconda intifada buona parte delle abitazioni del campo è stata rasa al suolo dall’esercito israeliano per contrastare le forze di resistenza palestinese. Oggi è molto facile individuare le case colpite, dopo la loro ristrutturazione e rimanere scioccati dalla loro quantità.

scultura creata da un artista tedesco con pezzi di macchine, ambulanze e case distrutte dall’esercito israeliano a dimostrazione del fatto che dopo ogni demolizione, qui si continua a costruire

 

 

Il campo di Jenin però è molto famoso per un’altra caratteristica: The Freedom Theatre. Si tratta di un progetto nato durante la prima intifada dalla presenza e dalla influenza di una donna molto forte, Arna Khamis. Ebrea di nascita, durante il servizio militare obbligatorio ha deciso di abbandonarlo e dedicarsi al popolo palestinese, nello specifico ai bambini con traumi dovuti all’occupazione. Così lei ha iniziato queste attività nel campo, per le quali ha ricevuto un premio Nobel nel 1993, e con i soldi guadagnati ha fatto costruire il primo teatro, The Stone theatre nel campo profughi, che però è stato distrutto insieme agli altri edifici nell’ attacco del 2002. Nel 2006 il teatro è stato ricostruito con il nome di “Freedom Theatre” sotto la guida del figlio di Arna, Giuliano Khamis, nato dall’unione di questa donna con un uomo palestinese. Giuliano ha girato anche un documentario sulla storia di questo progetto e il campo di Jenin, “Arna’s children”. Ma nel 2011 è stato brutalmente assassinato nei pressi del teatro da un uomo ancora oggi non identificato.

Questo progetto è molto importante perchè offre una serie di attività culturali, soprattutto per i più giovani, che di fatto diventa uno strumento di resistenza contro l’occupazione. “Uccidere un soldato non è poi così difficile, ma riuscire a cambiare la mente delle persone è il vero obiettivo, il più arduo e impegnativo”. Queste le parole di uno dei promotori del teatro al momento, che mi hanno colpita, soprattutto per il contesto in cui vengono pronunciate, fatto di check point, esercito, arresti e violenza psicologica… le parole e i pensieri continuano ad essere l’arma più potente!

la città di Jenin

Questo il link del sito del teatro: http://www.thefreedomtheatre.org/

per chi volesse curiosare e comprendere meglio il loro lavoro.

Amal Almustakbal

L’asilo/ centro culturale Amal Almustakbal si trova nel campo profughi di Aida, un vero e proprio quartiere, praticamente attaccato al muro dell’ apartheid che taglia Betlemme. Questo campo profughi è nato subito dopo la Nakba (“catastrofe” in arabo), anno in cui ha avuto ufficialmente inizio l’occupazione sionista. I palestinesi dislocati in quel momento furono intorno ai 711,000. Di questi 1500, provenienti da Gerusalemme est e dalla zona di AL Khalil, andarono a vivere nel campo di Aida ( ad oggi hanno raggiunto il numero di 6500 persone). Il nome è in onore della proprietaria del terreno su cui è stato costruito il campo,che generosamente ha accolto i palestinesi della diaspora, ma allo stesso tempo “aida” è uno dei termini in arabo usati per dire “ritorno”. All’ inizio i palestinesi vivevano nelle tende da 50 metri multifamigliari; a partire dagli anni ’70 hanno iniziato a costruire piccole case (2 locali per famiglia) ma senza bagni, perché erano pubblici, e dislocati nei quattro angoli del campo. Per avere l’ acqua gli abitanti erano costretti a camminare per 3/4 km e recarsi ad Al Malha o Al Walaja. Con gli anni 80 iniziarono a cotruire case monofamigliari. Quella che oggi viene visitata come Tomba di Rachele era in precedenza una moschea, inglobata dall’ occupante nell’area che oggi è israeliana, e a cui è stato anche cambiato nome.

il cerchio mattutino, con canzoni e danze

Dopo l’inizio della seconda intifada (1987), mancando le strutture scolastiche, una donna del campo di Aida, Amal, decise di aprire un asilo ai bambini, per sopperire a questa mancanza. Dopo però la morte della maestra Amal, avvenuta nel 1990, in un attacco ad un mercato di coloni israeliani (Machiuda), il nome dell’asilo viene cambiato in Amal, in suo onore.

Nel 2004, grazie all’ aumento delle attività culturali e sociali nel centro, il nome diventa Amal Almustakbal, che significa appunto “speranza per il futuro”. Le attività spaziano dal giardino d’infanzia, ai campi estivi.

al mattino durante l’accoglienza in asilo i bambini giocano liberamente anche con le costruzioni

Negli ultimi tre anni però, la relazione con il proprietario dello stabile si è incrinata, poichè le famiglie che frequentano il centro sono molto povere e faticano a coprire il prezzo dell’ affitto. Per questo il proprietario vorrebbe riavere lo stabile di nuovo vuoto, liberandosi del centro. Anche il Comitato del campo di Aida ha deciso di intervenire per mediare e risolvere la situazione. Inoltre, alcuni compagni italiani hanno deciso di sostenere l’importante lavoro pedagogico che il centro Amal Almustakbal fa aprendo un crowdfunding, permettendo cosi di rimanere dove si trovano e continuare a nutrire “speranze per il futuro” prendendosi cura dei più piccoli.

Mira che lavora la cera

Da alcuni mesi frequento l’asilo del centro ogni giovedì mattina. Seguo le attività giornaliere insieme alle maestre, aiutando dove possibile e nella loro infinita disponibilità mi hanno anche lasciato dello spazio per proporre ai bambini le attività Waldorf. Come in tutti gli altri asili anche qui la curiosità e l’accoglienza nei miei confronti sono i primi e più sinceri sentimenti. I bambini mi hanno riconosciuta subito come una persona di riferimento e si sono dimostrati immediatamente interessati a scoprire materiali e attività nuove. Per ora abbiamo “giocato” con i pastelli e con la cera. Il prossimo step sarà la pittura. I primi passi sono stati a volte difficoltosi, soprattutto con la pratica di creare liberamente, non essendo molto abituati a questo approccio. Sono anche io molto curiosa di vedere come andremo avanti in questo percorso, perché ammetto che vedere nei loro volti la scoperta e la meraviglia per qualcosa mai provato è già un’ enorme ricompensa per questa avventura.

i bambini mentre colorano con i pastelli a cera

La Quotidianità

 

 

 

La quotidianità qui in Palestina, soprattutto all’ interno di un campo profughi, è molto diversa da quella a cui siamo abituati noi.

Ti alzi, fai colazione, esci per andare a lavorare…sembrano azioni molto semplici, ma è sufficiente davvero poco a far cambiare il corso della tua giornata.

Dopo essere stata in asilo, aver riso e giocato coi bambini, ero al centro culturale Laylac, per organizzare gli impegni della settimana. Una semplice telefonata e l’ atmosfera si è completamente rovesciata: durante la mattinata dei soldati hanno sparato ad un ragazzo del campo, padre di famiglia, di soli 32 anni.

Stava andando a lavorare come tutti i giorni. Ma come purtroppo molto spesso accade qui, se un soldato israeliano decide di sparare, e lo decide perché sei palestinese, quindi sei ritenuto un pericolo, lo fa per uccidere.

Ramzi abu Yabes è morto mentre stava andando a lavorare in ospedale, perché infermiere. Ramzi è morto perché palestinese. Ramzi è morto perché gli israeliani occupano la sua terra e con arroganza possono decidere della sua vita. Ramzi è morto perché a sparare sono dei soldati, spesso davvero troppo piccoli per comprendere la responsabilità che hanno imbracciando un’ arma.

 

Per lui sono iniziati cortei in tutto il campo, ogni singolo componente della comunità è andato a portare le proprie condoglianze alla famiglia. E ora si stringeranno tutti insieme nell’ attesa che venga restituito il suo corpo.

Perché si, Israele fa anche questo: sottrae il corpo dei defunti alle cure delle famiglie. Senza dover dare spiegazioni. Anche  questa un’operazione strategica, a livello psicologico, per indebolire e sfinire il popolo palestinese.

Oggi il campo profughi di Deishesh ha un nuovo martire da aggiungere alla sua già lunga lista.

Primo Impatto, Prime Emozioni

Tutte le volte che devo salire sull’aereo per venire quaggiù le emozioni sono tante e contrastanti fra loro: estrema felicità di poter riabbracciare di nuovo questa terra e profonda tensione per i controlli israeliani. Non tocco cibo per tutto il giorno precedente al volo. Poi la signorina alla dogana, dopo qualche domanda apparentemente senza senso, senza far trasparire alcuna emozione ti riconsegna passaporto con annesso visto…ed è fatta. Ma solo il primo step. Eh si perché l’aeroporto di Ben Gurion si trova a Tel Aviv, in Israele, e tu invece vuoi andare proprio “dall’ altra parte”. Allora prendi il taxi collettivo, sperando che l’autista non sia troppo schizzinoso riguardo alla tua meta, e via per un’ora e mezza di strada, pigiata fra turisti e “autoctoni” che ti riempiono di domande riguardo alla tua visita nella terra santa. Questa volta mi è andata bene e l’autista mi fa fare anche una telefonata per raggiungere il mio puntello, non avendo ancora una scheda telefonica funzionante. Ed eccomi qua, a Betlemme: il profumo è quello delle mille spezie, di cui continuo a dimenticare il suono dei nomi; il colore è quello della terra secca e degli ulivi; la musica quella della preghiera con cui il moezzin richiama i fedeli, tutti i giorni per almeno 5 volte al giorno.
La prima cosa che faccio, dopo aver stritolato gli amici di qua, è divorare i falafel: non mangio da due giorni, e come li fanno qui non li fanno da nessuna parte, soprattutto quelli di BB nel campo profughi di Aida, i migliori!
In tutte queste prime cose, la prima notte, non poteva certo mancare un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Deishesh. I giorni dopo mi spiegano che è stata una cosa veloce, “solo” di disturbo o avvertimento, con delle bombe acustiche, e che non hanno portato via nessuno, questa volta…mentre mi viene raccontato tutto questo da W, mi mostra sorridendomi una foto: quando, esattamente un anno fa, un’incursione nel campo era avvenuta per portare via lui. Vedere il suo viso, le mani legate dietro la schiena, in mezzo ai soldati mi ha scossa. Eppure la sua storia la conoscevo già, non era stupore il mio, ma angoscia. C’ è una profonda differenza di emozioni che si prova quando si legge una notizia sulla Palestina, e il fatto che quella notizia riguarda persone che conosci, che stai imparando a scoprire, a cui inizi a legarti e con le quali stringi un rapporto di affetto e fiducia. E comunque lui è accanto a me ora che mi sorride appunto, quindi mi faccio contagiare…e il “contagio” continua per i giorni successivi: è impossibile resistere alla forza, alla voglia di vivere e di sorridere dei bambini del campo. Decidono loro giorno e orario delle lezioni di arrampicata e io posso solo dire di si, e insegnare loro quelle poche nozioni tecniche che ho. Loro ci mettono entusiasmo e voglia di fare,e poco importa il fatto che parliamo due lingue diverse, ci si capisce e a gesti e risate. Loro invece si impegnano ad insegnarmi ad andare sullo skate, ma va a finire che è una gara a farmi vedere quanto sono bravi a fare le acrobazie, e io faccio le foto. Nel giro di una settimana se giro per le vie del campo, i bambini mi chiamano per nome e mi salutano chiedendomi “kifek?”, interessati soprattutto al fatto che io sia italiana, ma senza mai farmi sentire straniera: nonostante le evidenti difficoltà quotidiane che si possono riscontrare qui (la corrente elettrica che va e viene, acqua da usare con il contagocce, le basilari), il calore umano nell’accogliere l’altro  è una caratteristica tipica di tutti i palestinesi, popolo che vive sotto occupazione da 70 anni, e che non manca mai. Una delle attività che li riempie di gioia, infatti, è farti mangiare:se potessero di darebbero cibo per 24 ore di fila, e anche se sei vegetariana, mangi shawarma, perché dicono “il pollo non è carne”, e cosi li fai felici!
Non sempre però è cosi facile mantenere alto l’umore: si può passare molto in fretta dalle risate davanti ad un fuoco sotto le stelle nel deserto che porta al Mar Morto, alla notizie che Gaza è di nuovo sotto attacco. Domenica l’esercito israeliano è entrato nella striscia sotto copertura, ma è stato scoperto dai soldati di Hamas. E cosi la fragile “tregua”, dopo la “concessione” di ingresso nella striscia di soldi e benzina, è precipitata di nuovo. Sette i morti palestinesi, uno israeliano. E proprio poca fà nel pomeriggio, lunedì 12 novembre, lo scontro è ricominciato e continue sono le telefonate fra chi sta “dentro” e chi sta “fuori” cariche di preoccupazione e incertezza. Sapremo meglio domani, inshalla!!!
ps
al momento tra Gaza e Israele è stato stabilito un cessate il fuoco, tramite anche la mediazione egiziana. Però è impossibile ora entrare e uscire da Gaza, tutti i coordinamenti sono stati bloccati. Il bilancio delle vittime palestinesi è aumentato con la morte di altri  ragazzi nella giornata di martedì 13 novembre.